Nonno, raccontami la guerra e il sacrificio di El Alamein

PARMA – Aristide e Martina Bonatti, nonno e nipote, settanta anni di differenza e stessi occhi. Lui, bersagliere reduce della battaglia di El Alamein, ha visto il deserto, prima sul fronte e poi prigioniero nel campo degli alleati. Lei, studentessa, ha visitato il campo di sterminio di Auschwitz Birkenau, durante il viaggio della memoria organizzato dall’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea. Proprio dopo quell’esperienza, Martina ha voluto ricostruire le vicende della Seconda guerra mondiale vissute da suo nonno.

«Sapere è l’unico modo per ricordare davvero. Serve andare a vedere con i propri occhi, sentire sulla propria pelle quello che è successo», spiega Martina, che ricorda l’immensità, il freddo, il fango e le testimonianze strazianti del campo di sterminio. Suo nonno quando aveva la sua età partì per l’Africa. Combatteva insieme alle truppe tedesche, contro gli alleati. «Il deserto di El Alamein non si dimentica, lo ricordo quando eravamo in pericolo, mi viene in mente adesso, mi basta vederne il nome sul giornale», spiega Aristide Bonatti, che ha compiuto 91 anni ieri, l’11 ottobre. Nel 2008 è stato nominato cavaliere della Repubblica ed è una colonna dell’associazione bersaglieri di Parma. «La guerra non è servita a nulla, “i superiori” hanno mandato a morire tanta gente inutilmente, soprattutto paracadutisti, li mandavano contro i carri armati, tutto questo solo per guadagnare onore e medaglie in più», racconta il nonno Aristide alla nipote Martina. Combatteva in una postazione sotto il «passo del cammello» (in quanto la forma ricordava la gobba di questo animale), finché non arrivarono i paracadutisti a dare il cambio ai bersaglieri. Un giorno, dopo una battaglia, arrivò a far visita al loro gruppo il generale tedesco Rommel. Dalla sua auto blindata diede una pacca sul cappello al giovane bersagliere. Il cibo era scarso, come le armi. Dovevano fronteggiare un esercito più equipaggiato e molto più numeroso. Aristide Bonatti fu fatto prigioniero a Tobruch, una notte, dopo uno scontro a fuoco con una colonna di mezzi inglesi. Fu portato nel campo di prigionia numero 310 di Suez.

«Non eravamo trattati male – spiega il nonno alla nipote – l’acqua non mancava, anche se non sempre era pulita, il pane per colpa del caldo purtroppo era sempre secco e duro». Aristide si ricorda di un suo compagno di armi, che barattò con un soldato australiano il suo cappello da bersagliere, in cambio di un tozzo di pane. Dopo l’armistizio nel campo di prigionia le condizioni dei reclusi migliorarono, non c’erano più sentinelle e potevano fare dei giri fuori, andavano anche in riva al mare. Di lì a poco rientrò in Italia. Da porto Said, Aristide Bonatti si imbarcò su una nave che lo portò a Napoli. Una volta rientrato in Italia rimase al sud, sotto il controllo degli Alleati, la guerra non era ancora finita. Alla sera andava a caricare gli aerei con casse piene di viveri e armi da mandare ai partigiani al nord. Solo dopo la liberazione raggiunse Parma. Dopo tanti anni, tornò in Egitto, per vedere quei luoghi dove il sangue si mischiò al deserto. Rese omaggio ai caduti, davanti al monumento su cui è scritto «Mancò la fortuna, non il valore».

Enrico Gotti

Fonte dell'immagine: FONTE FOTO

Continua