7165 - Lastra commemorativa – Stazione di Vada

Lastra commemorativa in memoria dei ragazzi dell’orfanatrofio israelitico di Livorno e della loro direttrice destinati alla deportazione. Un attacco aereo fermò il treno che li trasportava. Le famiglie di Vada e il parroco Don Antonio Vellutini li accolsero nelle loro case.

Posizione

Nazione:
Regione:
Provincia:
Comune:
Frazione:
Vada
Indirizzo:
Loc. Stazione
CAP:
57016
Latitudine:
43.3526875
Longitudine:
10.4701875

Informazioni

Luogo di collocazione:
Vada stazione
Data di collocazione:
27/01/2005
Materiali (Generico):
Altro
Materiali (Dettaglio):
Informazione non reperita
Stato di conservazione:
Ottimo
Ente preposto alla conservazione:
Comune di Rosignano Marittimo (LI)
Notizie e contestualizzazione storica:
Cinque caccia inglesi bloccarono il treno e provocarono un fuggi fuggi generale con morti e feriti
Vada e Sassetta sono state indicate come sedi del “Giorno della memoria” 2005 per ricordare il contributo dato nel 1944 dagli abitanti di Vada e dal sacerdote don Antonio Vellutini, medaglia d’oro al valore partigiano, per salvare la vita a 19 bambini dell’orfanotrofio ebraico di Livorno in età fra 7 e 18 anni, alcuni orfani, alcuni figli di matrimoni misti tra italiani ed ebrei, ospitati a Sassetta. Nel gennaio 1943 la Comunità israelitica di Livorno decise di sfollare il suo orfanotrofio in una villa di Sassetta, in località Poggio, di proprietà del signor Biasci, segretario del locale fascio. La vita nell’istituto diretto dalla signora Olga Coen Castiglioni coadiuvata dalla maestra Luciana Archivolti (ebree) e da Stefania Molinari e Palmira Fenzi (cattoliche) si svolgeva abbastanza tranquilla anche se non arrivavano più le rimesse dalla Comunità israelitica livornese alla quale erano stati confiscati tutti i beni. Il 5 giugno 1944 inizia il dramma di questi bambini, quasi tutti denutriti e malridotti. Inutile il tentativo del segretario del fascio Biagi verso il podestà von Berger per sottrarre i 19 bambini al destino che li attendeva. Il giorno dopo verso le 11 su di un camion scortati da due carabinieri (Pilade Barsotti e Rolando Calamai) i bimbi dell’istituto, da Sassetta partirono per Vada. Il camion imboccò i tornanti che dalla vetta di Sassetta portano giù verso il mare e in due ore si arrivò a Vada, da dove il viaggio della morte sarebbe proseguito in treno. Non si poteva stare alla stazione, era pericoloso e proibito. E così i ragazzi furono portati in una trattoria, ad aspettare. L'attesa fu breve. Verso le 16 a piedi, fagotti alla mano, il gruppetto serrato dei ragazzi si avviò verso la stazione, dove arrivarono giusto in tempo per assistere a un bombardamento. Gli alleati erano a nord di Grosseto e battevano senza risparmio le retrovie del fronte. Sulla stazione cadevano spezzoni, ma i ragazzi non furono presi dal panico. In fila dietro alla direttrice, i più grandi per mano ai più piccoli, i carabinieri guidarono il gruppetto lontano dal pericolo. E il treno, visti i danni, non fu fatto partire. Dove passare la notte? Alberghi nel paesino non ce n'erano e le case erano invase dai tedeschi. Unico rifugio, la trattoria. L'oste non si tirò indietro, mise in tavola qualcosa per calmare la fame e poi tavoli e sedie diventarono tanti letti. «Dormii, mi ricordo bene, su un biliardo - racconta Ugo Bassano - ero così stanco ed emozionato che caddi in un sonno profondo. A dieci anni si può dormire anche sui sassi». Alle dieci, la mattina dopo, i ragazzi erano di nuovo alla stazione di Vada. Il treno per Collesalvetti era pronto, motrice, due vagoni passeggeri e un vagone merci carico di fieno che nascondeva munizioni tedesche. Tornarono gli aerei, ci fu un fuggi fuggi dalla stazione, ma dopo mezz'ora i bambini furono fatti salire in carrozza. Il treno si mosse lentamente. Aveva appena fatto cinquecento metri, quando giù dal cielo piombarono cinque velocissimi caccia. «Questa volta - ricorda Bassano - pensai che per noi fosse la fine». A bassissima quota i cinque caccia passarono e ripassarono, mitragliando. Ci furono subito dei morti, il frenatore e il macchinista. Il treno si arrestò, i ferrovieri fuggirono e i ragazzi, con direttrice e carabinieri, si gettarono in un fossato che correva lungo il binario. Mentre il bombardamento continuava, Olga Castiglioni contò e ricontò i ragazzi. C'era tutti (anche i carabinieri), anche se la piccola Ines era stata colpita dai vetri in frantumi e la graziosa Maura aveva riportato ferite più gravi. Scorreva il sangue, qualcuno piangeva, tutti erano atterriti. E in quel silenzio irreale, assordato da bombe e mitraglia, uno dei ragazzini, studente del collegio rabbinico, alzò gli occhi al cielo e disse a voce alta la preghiera dei padri: «Sheman Israel, Adonai Eloenu Adonai Ehad (Ascolta Israele, l'eterno è il tuo Dio, l'eterno è uno). I ragazzi in coro - guidati dalla direttrice - risposero ad una voce: «Baruh shem chebod Malhutò lenolam Vaned» (Benedetto il nome glorioso del suo regno, per sempre). In quel fossato, la preghiera del risveglio e della sera sciolse l'emozione e si pianse di gioia per lo scampato pericolo. Da questo momento entra in azione don Vellutini che dopo ogni incursione aerea raggiungeva sempre la stazione con alcuni volontari per assistere eventuali feriti e portare aiuto. Anche questa volta inforcata la bici, si diresse alla ferrovia e senza perdere tempo riunisce i bambini, li porta in paese, li fa dormire la prima notte sui biliardi e sui tavoli di marmo del bar Impero, sotto le logge, ma il giorno dopo li affida a famiglia contadine (un bambino lo prende lui stesso in canonica, Sigfrid Libson, ebreo tedesco) per nasconderli da possibili rastrellamenti dei tedeschi e dato che era il Venerdi Santo volle partecipassero anche alla processione in paese. I 19 bambini di Sassetta sono così al sicuro. Fu come uscire da un tunnel. Sempre lui don Antonio Vellutini, un cuore grande, un coraggio da leone, segretamente partigiano, poco tempo prima, aveva tenuto testa ai tedeschi offrendosi al posto di alcuni civili in procinto di essere fucilati. Ed era riuscito a salvarli. Ora la sua ala protettrice si allungava sui piccoli orfani ebrei. I carabinieri non sapevano cosa fare. Chiesero insistentemente alle autorità di Sassetta di riportare indietro i ragazzi, ma non ci fu nulla da fare. A tutti i costi dovevano raggiungere Livorno e poi il campo di smistamento tedesco di Fossoli (Modena), destinazione Auschwitz. E così con un camion della Todt (l'organizzazione del lavoro forzato tedesco) i bambini furono portati a Livorno, e alloggiati nella scuola Carducci all'Ardenza, nelle grandi aule deserte. Sette giorni durò l'attesa. Nessuno sapeva cosa fare. Fu così che la ferrea logica nazista finì per sbriciolarsi. Alcuni tra i più grandicelli riuscirono a scappare, altri, che erano nati da matrimoni misti, vennero riconsegnati ai familiari che, saputi i fatti, avevano insistito con la Prefettura (allora il capo era il famigerato FacDouelle) per la loro liberazione. «Mia madre era cattolica, e così fu mio zio Armando, nonostante il grande pericolo che gravava su di lui, che venne a prendere me e mia sorella Luciana - ricorda Ugo Bassano - Lui era sfollato a Vicarello e là ritrovai anche il mio fratellino Emilio. Tutto avvenne come in un sogno. La famiglia salva e unita, in una comunità, quella ebraica livornese, che subì lutti e perdite gravissime nei lager». Così si misero in salvo una decina di ragazzi. E gli altri? Per gli altri l'ordine di proseguire per Fossoli restava perentorio. Ma nello sfaldamento del fronte, con gli alleati alle porte, i carabinieri presero una decisione. Il comandante della compagnia da cui i due bravi carabinieri, Barsotti e Calamai, dipendevano pose loro una alternativa con una sola risposta: portare i ragazzi a Fossoli o, se non era possibile, riportarli a Sassetta». Il ritorno a Sassetta fu una liberazione per tutti. Qui furono ospitati fino all’arrivo delle truppe alleate dal parroco don Carlo Bartolozzi, altro sacerdote fieramente antifascista a lungo perseguitato dal regime. Ma presto, molto presto, ogni pena finì, con l'arrivo degli alleati. Le cronache dell'epoca segnalano che i ragazzi vennero presi in consegna dal cappellano ebraico della V Armata Aron Pepperman. L'odissea del gruppetto di bambini ebrei perseguitati si era conclusa felicemente. Solo uno imboccò il tunnel della morte. Il piccolo Benito Atthal. Aveva appena dieci anni. Taciturno, le sofferenze e i traumi della guerra e delle persecuzioni l'avevano profondamente scosso, «tanto che - ricorda con pietà Ugo Bassano - era diventato incontinente. A dieci anni, infelice». Lui non era di sangue misto, non aveva pensato a fuggire. La mamma era andata a prenderlo alla scuola di Ardenza. L'avevano sconsigliata: «Ti prenderanno con lui...». «Ma lui è mio figlio, dove va lui vado io», ricorda con un filo di voce Ugo Bassano di aver sentito raccontare, dopo, dai più vecchi. E fu così che dalla stazione di Livorno partì un treno per Fossoli, con il piccolo Atthal e sua madre. Un viaggio senza ritorno. Bisogna leggerla, la lista della gente di Livorno, Pisa, Lucca, Firenze. Esistenze come quella della piccola Gigliola Finzi, che i suoi quattro mesi non hanno salvato dall'orrenda strage. (Sintesi da alcuni articoli de "Il Tirreno" 1999)
fonte www.lungomarecastiglioncello.it

Contenuti

Iscrizioni:
Da questa stazione
Ai primi di aprile del 1944
Furono avviati alla deportazione
I ragazzi
Dell’orfanatrofio israelitico di Livorno
E la loro direttrice
Un attacco aereo
Fermò il treno che li trasportava
Le famiglie di vada e il parroco
Don Antonio Vellutini
Li accolsero nelle loro case
Giorno della memoria 2005
Simboli:
Informazione non reperita

Altro

Osservazioni personali:
Informazione non reperita

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